Incisioni Di Jean - Pierre Velly

Un Point, C’est Tout

Da Giovedì 16 Febbraio a Sabato 22 Aprile 2017 - dalle ore 18:00
Spazio Don Chisciotte - Via Della Rocca, 37 - Torino (TO)

Incisioni di Jean-Pierre Velly Un point, c’est tout a cura di Vincenzo Gatti

Inaugurazione: giovedì 16 febbraio 2017, ore 18 Mostra: dal 17 febbraio al 22 aprile (martedì – sabato ore 10.30-12.30; 15-19) Spazio Don Chisciotte, via della Rocca 37 – Torino www.fondazionebottarilattes.it

A quasi quarant'anni dall'ultima occasione espositiva torinese, l'opera incisa dell'artista francese Jean-Pierre Velly (1943-1990) viene presentata giovedì 16 febbraio alle ore 18 nello Spazio Don Chisciotte di Torino della Fondazione Bottari Lattes, con un'ampia retrospettiva a cura di Vincenzo Gatti. Una mostra coraggiosa: in un momento in cui la grafica incisa riceve scarsa attenzione, la Fondazione Bottari Lattes vuole riscoprire la forza attuale di una tecnica artistica che fa del segno e della visione in bianco e nero il motore della creazione e della libertà espressiva. 

L'antologica Incisioni di Jean-Pierre Velly. Un point, c’est tout prende il titolo da un lavoro di Velly del 1978 per sottolineare l'elemento distintivo delle sue opere: all'artista bastano un punto o un tratto inciso con il bulino per avviare sulla lastra la creazione di un mondo, ora composto da morbidi nudi femminili, altre volte affollato di resti di urbani naufragi, ora colmo di allucinate sarabande.

La mostra, a ingresso libero, rimane aperta fino al 22 aprile (martedì – sabato ore 10.30-12.30; 15-19) ed è organizzata dalla Fondazione Bottari Lattes (www.fondazionebottarilattes.it) con il sostegno della Regione Piemonte.

Non si tratta solamente di un giusto omaggio a uno tra i più rilevanti esponenti dell'arte calcografica del secondo Novecento, spiega il curatore Vincenzo Gatti, ma anche della testimonianza di un comune destino che aveva legato Mario Lattes, a cui la Fondazione è dedicata, e l'artista francese. La galleria romana Don Chisciotte, inaugurata con una personale di Lettes nel 1962 e di cui lo spazio torinese ha raccolto l'eredità, sarà punto di riferimento costante per ambedue e il rapporto con il direttore Giuliano de Marsanich diventerà fondamentale per la carriera di Velly.

I fogli esposti a Torino, una trentina circa, provengono dalla collezione Lattes e ben testimoniano dell'apprezzamento, della stima e anche della comunanza di ideali ritrovati nelle opere dell'incisore: in prevalenza bulini anche di grande formato, costituiscono una vera antologia dell'appassionato lavoro dell'incisore, a partire dagli anni Sessanta, con fogli come Trinità dei Monti del 1968, fino a giungere alle ultime opereprima della scomparsa come, ad esempio, Fleurs d’Hiver  del 1989 nella quale l’uso della tecnica della maniera nera testimonia del prevalente interesse pittorico manifestato dall’artista in quegli anni.

Velly, illustra Vincenzo Gatti, usa magistralmente il segno fatale e crudele del bulino per costruire un'immagine del mondo sospesa fra tradizione, critica della modernità e dedizione totale all'arte. La limpidezza della traccia sostiene e accentua le accumulazioni più disperate: sono visioni cosmiche e apocalittiche costruite con una tecnica antica tanto intimamente vissuta da sciogliersi e sublimarsi nel sogno.

L'artista non nasconde l'ascendenza nordica delle sue fantasie e dei suoi fantasmi, da Dürer a Seghers ad Altdorfer, fino a giungere, in coerenza al suo stesso ideale di vita, al romanticismo più acceso di Friedrich e di Carus, più evidente quando verso gli anni Ottanta si dedicherà quasi esclusivamente alla pittura.

Lontano dagli ambienti mondani, da un mondo superficiale e distratto, lavora chiuso nel suo ambiente quasi come una crisalide, in tensione continua verso l'essenza delle cose e il loro significato, oltre le apparenze, che pur lucidamente definite, finiscono tuttavia per disgregarsi in una gloriosa e sofferta totalità.

Come lo stesso Velly dichiarava a proposito della sua dedizione al disegno e all'incisione: «... la visione in bianco e nero è un fatto mentale, non esiste in natura, e nel bianco e nero si scatena tutta la mia ansia e sete di libertà espressiva, senza inseguire le mode senza voler essere contemporaneo in tutti i modi...».

Jean-Pierre Velly nasce ad Audierne, in Francia, nel 1943. Dopo un breve soggiorno in Tunisia, la famiglia si trasferisce in Normandia. I suoi studi si svolgono tra Tolone e Parigi, dove segue i corsi delle Scuole di Belle Arti. Talento molto precoce, nel 1966 vince il Grand Prix de Rome con un'incisione a bulino che rivela già pienamente la qualità e la maturità della sua ricerca. Il Premio prevede una borsa di studio e un soggiorno di quaranta mesi presso Villa Medici, prestigiosa sede dell'Accademia di Francia a Roma, diretta in quegli anni da Balthus: per la sua carriera si tratta di un'opportunità fondamentale, che gli consente di frequentare l'ambiente culturale romano e di farsi apprezzare dal pubblico e dalla critica, colpita dalle qualità tecniche e visionarie delle sue incisioni. Espone a Milano presso la Galleria Transart nel 1969 e a Napoli presso la Galleria S. Carlo nel 1970.

Si stabilisce, ed è una scelta di vita definitiva, a Formello, un antico borgo vicino alla capitale. Nel 1971 incontra Giuliano de Marsanich, proprietario della Galleria don Chisciotte di Roma (di cui lo spazio torinese ha raccolto l'eredità), che in breve tempo gli organizza una personale: sarà l'inizio di un sodalizio che continuerà negli anni con ripetuti appuntamenti espositivi .

A Torino espone nel 1971 nella Galleria Davico e nel 1979 nella Galleria Arte Club. Si moltiplicano le mostre, in Italia e all'estero, di cui scriveranno Moravia, Sciascia, Soavi, Sgarbi e Praz.

Dalla fine degli anni Settanta si assiste a un progressivo passaggio dall'incisione, sua tecnica d'elezione, alla pittura. Nel 1990 muore tragicamente durante una gita sul lago di Bracciano.

Negli anni seguenti gli sono state dedicate importanti retrospettive, tra cui l'ultima, recentissima, all'Istituto Centrale per la Grafica di Roma nel 2016.

Mostra: 17 febbraio – 22 aprile 2017 Martedì - sabato ore 10.30-12.30; 15-19. Ingresso libero

www.fondazionebottarilattes.it segreteria@spaziodonchisciotte.it tel. 011.19771755 

Incisioni di Jean-Pierre Velly Un point c’est tout

La vicenda umana e creativa di Jean-Pierre Velly si consuma nell'arco di pochi decenni, ed è la testimonianza di un’adesione totale, di una vera e propria precoce e costante devozione rivolta alla grafica incisa.

Infatti, cosa meglio della calcografia poteva rappresentare l'immaginario nostalgico e febbrile, apocalittico e malinconico, del giovane artista francese?

La determinazione fatale e crudele del bulino, l'alchimia dell'acquaforte, sono i due versanti della prassi ideale per una concentrata rappresentazione come la sua, esibita nello spazio di un tavolo, con pochi strumenti e un ambiente riparato.

Dopo il cruciale episodio del Prix de Rome, Velly rifiuta il ritorno in Francia e trova il suo guscio tra le case di un antico borgo laziale, dove costruisce il suo privato labirinto nella wunderkammer dello studio, tra i reperti raccolti nella natura, lontano dagli ambienti mondani e dalle esasperanti dinamiche intellettuali.

In quel luogo favorevole ai sogni (e ai segni...) l'artista poteva costruire la propria immagine dell'universo, sospesa fra tradizione, critica della modernità e fiduciosa adesione a una disciplina, quella bulinistica in particolare, tanto intimamente vissuta da sciogliersi, purificarsi da ogni esibito virtuosismo e sublimarsi nell'immaginazione.

Come egli stesso dichiarava a proposito della dedizione al disegno e all'incisione: “la visione in bianco e nero è un fatto mentale, non esiste in natura e nel bianco e nero si scatena tutta la mia ansia e sete di libertà espressiva, senza inseguire le mode, senza voler essere contemporaneo in tutti i modi”.

Basta un punto (“Un point c'est tout” è il titolo di un'incisione del 1978) per avviare sulla lastra l'atto creativo, un punto che diventa traccia quando il bulino, strumento d'elezione, penetra nel metallo a evocare distese nudità femminili contrapposte a resti di urbani naufragi oppure a scatenare vortici di detriti, concitati marosi di oggetti e allucinate sarabande.

La tensione continua, logorante, verso l'essenza delle cose e il loro intimo significato genera forme lucidamente immaginate, ma presto destinate a disgregarsi in una gloriosa e sofferta totalità, pur conservando mirabilmente percettibilità e identità.

Velly non nascondeva l'ascendenza nordica dei propri fantasmi e fantasie, ricordando Durer, Shongauer, Seghers, Rembrandt. Egli però appartiene a buon diritto anche alle estreme propaggini della sottile vena visionaria che percorre tutta la storia dell'incisione francese, da Jean Duvet nel XVI secolo, agli incisori della Scuola di Fontainebleau, a Jacques Bellange nel Seicento, fino a giungere nell’Ottocento a Charles Meryon e alle romantiche accumulazioni di Rodolphe Bresdin, esplicitamente indicato tra i suoi maestri.

Il romanticismo dell'incisore trapela appena in certi panorami, nei cieli variamente corruschi, in penombre comunque prive di pericolosi languori tanto è robusta  la tecnica, raffinata e potente nel contempo. Si renderà più evidente quando l'artista vorrà dedicarsi quasi esclusivamente alla pittura, discostandosi da un mondo tanto ardentemente esplorato fino a conoscerne vastità e incognite.

Potrà allora smarrirsi nelle lontananze di misteriosi crepuscoli e abbandonarsi a quelle ombre che aveva sempre lambito e che forse lo avrebbero atteso per accoglierlo nelle profondità di un lago, in un giorno di tarda primavera.

Vincenzo  Gatti